Non bisogna abbandonarsi agli allarmismi per non fare il gioco degli estremismi che vogliono aumentare la tensione» dice Brahim Baya, portavoce dell’Associazione islamica delle Alpi di via Chivasso. La paura, spiega, spinge ad alzare barricate e ad accendere la guerra di civiltà. «Ma dall’altra parte non possiamo dire che non possa succedere nulla. Il cane sciolto può esserci. Per questo le nostre moschee non sono solo luoghi di educazione spirituale, ma di educazione alla cittadinanza. Per esempio, durante il sermone del venerdì abbia- mo diffuso inviti a partecipa- re al voto. E promosso incontri di dialogo interreligioso anche nelle scuole». È il punto di partenza scelto da Baya per svelare gli anticorpi e il lavoro anti-radicalizzazione svolto quotidianamente nei centri di culto della grande comunità islamica torinese: 50 mila cittadini provenienti in particolare dal Marocco, Bangladesh, Egitto e Senegal. E, per un terzo, sotto i 25 anni.
Tra le vittime dirette degli attacchi dei terroristi come quello di Barcellona ci sono gli appartenenti alla comunità musulmana. «Viviamo la comune paura di un attentato – dice Baya -. A cui dobbiamo aggiungere l’odio aizzato da chi vuole sfruttare la paura per creare scontro. È preoccupante leggere “oc- chi per occhio”. Contro le comunità che sono le prime a combattere contro il radicalismo». Battaglia che si gioca su campi diversi. Da anni, a Torino esiste un coordinamento dei 16 centri islamici che dialoga con le istituzioni e organizza momenti di partecipazione. Le feste, come quella del Sacrificio, ma anche le giornate «porta aperte» che hanno coinvolto anche quelle moschee, come quella di via Cottolengo o via Mottalciata orientate a prediche più rigide di tipo salafita (che sono comunque distanti dal radicalismo).
«Noi lavoriamo soprattutto con le persone» dice Said Alajdi El Idrissi, presidente della storica moschea di via Baretti. Con i giovani: «Organizziamo partite di calcio – spiega -, li spingiamo a seguire le attività dell’Asai o del San Luigi per stare insieme a coetanei di al- tre religioni». E con i genitori: «Cerchiamo di responsabilizzarli. Perchè devono essere i primi a captare i possibili segni di chiusura e, quindi, di radicalizzazione».
Poi, c’è un rapporto strettissimo con le forze dell’ordine: Digos e Ros dei carabinieri vigilano su una comunità islamica di cui faceva parte anche Mido, il marocchino di Barriera di Milano arrestato con l’accusa di essere un soldato dell’Isis nel maggio scorso. Che, però, viveva lontano dal- le moschee «dove – dice Mohammad Reza Kiavar, responsabile Ufficio Lavoratori Immigrati Cisl – sono importanti le condanne degli Imam che spingono a creare una discussione nelle stesse case delle famiglie musulmane. Il confronto diretto è la modalità di prevenzione migliore in contrapposizione ai messaggi di odio che i giovani possono trovare sul web».
Paolo Coccorese – La Stampa [21/08/2017]
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