Tratto dal libro “Muhammad, dall’islam di ieri all’Islam di oggi”, Ed. Einaudi, pp.108-112
Il Profeta, pace su di lui, e tutti suoi compagni avevano dovuto lasciare la Mecca a causa delle persecuzioni e dell’ostilità dei fratelli e delle sorelle dei loro rispettivi clan. La situazione si era fatta intollerabile, degli uomini e delle donne erano morti, altri erano stati torturati e i Coreisciti avevano infine deciso di volgersi contro lo stesso Muhammad e ucciderlo. L’emigrazione, l’Egira, al-Hijra, è innanzitutto e chiaramente la realtà obiettiva di uomini e donne credenti, cui non si lasciava libertà di praticare e di esprimersi, e che decisero di lasciare ogni cosa spinti dalla coscienza. Poiché «ampia è la terra di Dio», come ricorderà il Corano, decisero di strappare le loro radici, di rompere col loro mondo e le loro abitudini e di vivere l’esilio in nome della loro fede. La rivelazione loderà il coraggio e la determinazione di quei credenti che con il loro gesto, tanto difficile e umanamente costoso hanno testimoniato la propria fiducia in Dio.
«A coloro che sono emigrati dopo avere sofferto ingiustizie Noi daremo nel mondo una buona posizione, è più grande, invero, sarà il premio nell’altra vita. Oh se lo sapessero! Questo, a proposito di coloro che saranno costanti e avranno confidato nel loro Signore.»
L’esilio è dunque, ancora una volta, una prova di fiducia. Tutti i profeti hanno fatto esperienza sempre in maniera assai intensa di tale prova del cuore, e sulla loro scia tutti i credenti. Fin dove sono pronti ad andare, quanto sono pronti a donare di loro stessi e delle loro vite, in nome dell’Unico, della Sua verità e del Suo amore? Sono queste le eterne questioni della fede che accompagnano qualsiasi esperienza temporale e storica della coscienza credente. L’Egira fu la risposta della comunità musulmana, all’alba della sua esistenza.
L’esilio vorrà anche dire, di fatto, per i primi musulmani imparare a rimanere fedeli al senso degli insegnamenti, malgrado il cambiamento di luogo di cultura e di memoria. Medina significherà altre abitudini, altri tipi di relazioni sociali, un ruolo assai diverso per le donne (socialmente assai più attive qui che alla Mecca), rapporti più complessi fra le tribù, al che occorreva aggiungere la presenza influente – e nuova per i musulmani – delle comunità giudaica e cristiana. Molto presto, dopo neanche tredici anni la comunità di fede dovrà, seguendo l’esempio del Profeta, su di lui la pace, sceverare tra ciò che aveva a che fare con i principi islamici e ciò che invece atteneva soprattutto alla cultura meccana. Occorreva restare fedele ai primi e imparare ad essere flessibili, e critici verso la cultura di origine. Occorreva sforzarsi di riformare certi atteggiamenti più culturali che islamici. ‘Umar ibn al-Khattab lo imparò a sue spese quando, dopo aver reagito molto duramente a un rimbecco della moglie (comportamento impensabile alla Mecca), si sentì ritorcere contro che doveva sopportare e accettare la cosa proprio come faceva il Profeta, su lui la pace. Esperienza difficile per lui, come per gli altri, i quali avrebbero potuto essere tentati di credere che le loro abitudini e i loro costumi fossero di per sé stessi islamici: rigira esilio di credere che le loro abitudini e i loro costumi fossero di per se stessi islamici: l’Egira, l’esilio, riveleranno che le cose non stanno così e che occorre mettere in questione tutte le proprie pratiche culturali, innanzitutto in nome della fedeltà ai principi, ma anche per aprirsi ad altre culture e per arricchirsi delle loro ricchezze. Ad esempio il Profeta, pace su di lui, venuto a sapere di un matrimonio tra gli Ansar (musulmani di Medina) mandò loro due donne abili nel canto, perché, spiegò, essi amavano quest’arte. In tal modo non solo riconosceva un tratto, un gusto culturale, che di per sé non era in contraddizione con i principi islamici, ma lo integrava come apporto positivo, come arricchimento, nella sua esperienza umana. L’Egira fu dunque anche una prova per l’intelligenza che veniva stimolata a distinguere tra i principi e le loro manifestazioni culturali; ciò, inoltre, implicava apertura e fiducioso accoglimento nei confronti di nuovi costumi, nuovi modi di essere, di pensare, nuovi gusti. L’universalità dei principi si coniugava così col bisogno di riconoscere la diversità dei modi di vita e delle culture. L’esilio era l’esperienza più immediata e profonda perché si trattava di strappare le proprie radici pur restando fedeli al medesimo Dio, al medesimo senso, in ambienti diversi.
A mezza strada tra gli insediamenti storici e le meditazioni spirituali, l’Egira è anche un’esperienza di liberazione. Mosè aveva liberato il suo popolo dall’oppressione del faraone, l’aveva condotto verso la fede verso la libertà. L’essenza dell’Egira è esattamente della stessa indole: perseguitati per le loro convinzioni i credenti decidono di fuggire dai loro tormentatori e di intraprendere la loro marcia verso la libertà. Così facendo affermano che non si può accettare l’oppressione, che non si può accettare uno statuto di vittime, e che in fondo la questione è semplice: il discorso di Dio impone di essere liberi o di liberarsi. Era il messaggio che la nuova fede aveva già trasmesso agli schiavi della Mecca significava la loro liberazione e tutti suoi insegnamenti miravano alla fine della schiavitù. Era ormai un più ampio appello indirizzato all’intera comunità spirituale dei musulmani: la fede esige libertà e giustizia, e occorre essere pronti, come nel caso dell’Egira, a pagarne personalmente e collettivamente il prezzo.
La dimensione spirituale di tali insegnamenti è a portata di mano: è essa, del resto, a fondarli e conferire loro significato. Sin dalle prime Rivelazioni, Muhammad era stato invitato a esiliarsi dai suoi persecutori e dal male:
«Pazienta contro quelli che dicono e allontanati [esiliati] da loro in bel modo.» Poi «Dall’abominio [il peccato, il male] allontanati! [Esiliati dunque].»
L’Egira è l’esilio della coscienza e del cuore lontano dai falsi dei, dall’alienazione di qualsiasi genere, dal male e dai peccati. Allontanarsi dagli idoli del proprio tempo, dal potere del denaro, dal culto dell’immagine ecc.; emigrare lontano dalle menzogne e dai modi di vivere privi di etica; liberarsi tramite l’esperienza della rottura, di tutte le parvenze di libertà paradossalmente rafforzate dall’abitudine: ecco l’esperienza spirituale della Hijra. Quando, tempo dopo, gli verrà chiesto da un compagno quale fosse la migliore hijra, il Profeta, su di lui la pace, risponderà: “Esiliarsi [allontanarsi] dal male [abominio, menzogna, peccato]”. Tale esigenza di esilio verrà ribadita in diverse forme.
Così, i musulmani che effettuarono l’Egira – dalla Mecca a Medina – hanno sperimentato nei fatti la dimensione ciclica degli insegnamenti dell’Islam, poiché dovettero realizzare un nuovo ritorno a sé, un’emigrazione del cuore. Il viaggio a Medina fu un esilio spirituale verso l’interiorità del loro essere, lasciando la loro città e le loro radici, tornavano a se stessi, al proprio intimo, al senso delle loro vite al di là delle contingenze storiche.
L’Egira fisica, atto fondante e asse dell’esperienza della prima comunità islamica ha avuto luogo e non si ripeterà più, come spiegherà con forza ‘A’isha a tutti coloro che a Medina volevano rivivere quest’esperienza. Umar Ibn al-Khattab deciderà più tardi che questo avvenimento unico avrebbe segnato l’esordio dell’era islamica, la quale comincia così nel 622 secondo un calcolo basato sui cicli lunari. Ciò che resta, è disponibile per chiunque nel corso dei secoli e per sempre, è l’esperienza dell’esilio spirituale che riconduce l’individuo a se stesso e lo libera dalle illusioni dell’io e del mondo. L’esilio in nome di Dio consiste, in sostanza, in una serie di domande che Dio pone a ciascuna coscienza: chi sei? qual è il senso della tua vita? dove vai? Accettare il rischio di questo esilio, confidare nell’Unico, è come rispondere: attraverso di Te, io torno a me e sono libero.
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